L’ennesimo attacco all’autonomia delle Casse di Previdenza Private dei professionisti?

di Ing. Silvia A. V. Fagioli
Delegato ingegnere per la provincia di Milano e Consigliere d’Amministrazione Inarcassa
15 Ottobre 2023

La Ragioneria generale dello Stato avanza la richiesta di adottare un sistema di contabilità economico-patrimoniale unico per le PA anche alle Casse di previdenza – riforma prevista all’interno del PNRR da attuarsi entro il 2026.

Un altro capitolo della saga amministrativa e giurisprudenziale relativa alla natura giuridica delle Casse previdenziali private e il regime giuridico cui esse debbono essere assoggettate che stenta a riconoscere quello che si trova sul confine fra pubblico e privato.
Vi è la tendenza a qualificare come “pubblico” tutto ciò che agisce per scopi non strettamente privatistici, una concezione ormai superata per cui ogni soggetto privato può agire solo e soltanto per un interesse egoistico e di guadagno individuale.

Le Casse dei professionisti sono in realtà definibili come “comunità intermedie” che entrano a comporre lo “stato -apparato” nell’ambito di una forma di Stato che è stata definita “Repubblica della Sussidiarietà”. La riforma delle Casse del 1993/1994 intendeva ispirare la riorganizzazione e la disciplina del settore attorno al riconoscimento di questo principio di autonomia.
I continui attacchi dimostrano come sia esistita fin da principio una evidente insofferenza al riconoscimento dell’autonomia sancito legislativamente, oltre a una conclamata diffidenza sulla effettiva reale capacità delle Casse di gestirsi in autonomia, generando una evidente dicotomia tra la volontà legislativa – manifestata in maniera inequivocabile nella legge delega e nel parere delle commissioni parlamentari- che ne riconosceva la piena autonomia delle Casse e l’effettiva attuazione di questi principi.
Le Casse fondano sulla Costituzione la loro mission previdenziale, ed in particolare sull’art. 38, comma 4, -“Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato” – e sull’art. 2 della Costituzione – “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica, e sociale” che le comunità dei professionisti attraverso proprie “formazioni sociali”, cioè le loro Casse di Previdenza, svolgono per non gravare sulla “solidarietà generale” e quindi sulla collettività.
La natura di autonomia sociale delle Casse è dimostrata dai costanti richiami della Corte costituzionale alla “solidarietà endocategoriale” e alla “comunanza di interessi” che le Casse realizzano in funzione dei fini previdenziali.
La Corte – dalla sentenza n. 248 del 1997 alla sentenza n. 7 del 2017 -ha univocamente sostenuto la “scelta di dotare le Casse di previdenza di un sistema di solidarietà endocategoriale basato sulla comunanza di interessi degli iscritti – cosicché ciascuno di essi concorre con il proprio contributo al costo delle erogazioni delle quali si giova l’intera categoria – e di vincolare in tal senso la contribuzione di detti soggetti”.

Lo Stato allora dovrebbe limitarsi alla propria funzione attraverso il riconoscimento di strumenti in grado di garantire l’obbligo di contribuzione degli iscritti alle Casse.

Così non è stato ed ancora non è. Abbiamo assistito ed ancora assistiamo- come dimostra questa ultima richiesta della Ragioneria dello Stato di obbligare le Casse all’adozione di un sistema di contabilità diverso da quello civilistico – a veri e propri paradossi in virtù dei quali le Casse vengono considerate per certi aspetti soggetti privati – non potendo ad esempio  ricevere garanzie o finanziamenti pubblici- e per altri aspetti soggetti pubblici a tutti gli effetti – l’inclusione negli elenchi ISTAT delle pubbliche amministrazioni con la conseguente qualificazione di organismi di diritto pubblico e dunque l’assoggettamento alla disciplina sui contratti pubblici, ecc.

Certamente le Casse possono essere considerate “comunità di lavoratori” che gestiscono in autonomia il servizio pubblico della previdenza sociale dei propri iscritti e quindi ben si applica anche l’art. 43 della Costituzione in cui è stabilito che a “comunità di lavoratori o di utenti” possono essere riservate o trasferite attività economiche che abbiano le caratteristiche proprie dei “servizi pubblici essenziali” e siano di “preminente interesse generale”.

Cosa si può quindi affermare?

Certamente che le risorse delle Casse non sono risorse dello Stato. Lo Stato, con l’obbligo contributivo stabilito per legge, crea le condizioni affinché queste “formazioni sociali” siano sostenibili nel tempo; inoltre, il rispetto dell’autonomia implica che il rapporto tra Stato e Casse dovrebbe essere basato su un principio di coordinamento e non di subordinazione con tutte le conseguenze sulla natura dei controlli e della Vigilanza; infine le Casse si gestiscono senza mai fare appello alla collettività generale, dovrebbero quindi poter indirizzare i propri investimenti verso utilizzi che siano funzionali e utili agli interessi dei propri iscritti.